martedì 13 luglio 2010

GUADAGNARE CON IL PETROLIO













dall'espresso di venerdi 15 settembre 2000
ORO NERO / L'AUTUNNO CALDO
Chi fa i soldi col petrolio alle stelle.
Da una parte all'altra dell'oceano è emergenza.
Ma la tempesta dei prezzi sta facendo la fortuna
di speculatori, brokers, armatori di navi cisterna,
fondi d'investimento, società grandi e piccole di
intermediazione... Fra colpi bassi e mitiche
stangate
di Maurizio Maggi

I paesi produttori, ovviamente. E poi i brokers,
quelli che di mestiere trovano le navi per
trasportare i carichi di petrolio, e gli armatori
delle cisterne che solcano i mari gonfie di oro
nero. E ancora i traders, che comprano da chi
produce e vendono a chi raffina o ad altri traders,
e i grandi fondi d'investimento attivi sul settore
energetico. Infine, i governi, specie quelli europei
che sui derivati del petrolio con le tasse ci vanno
pesanti. Ecco chi, nell'estate 2000 infuocata del
petrolio, guadagna mentre tutti gli altri - dagli
industriali agli automobilisti - maledicono il
caro-energia scatenato dai rialzi dei prezzi
petroliferi.

Interpellato da "La Stampa", il presidente
dell'Eni, Gian Maria Gros-Pietro, ha puntato il
dito contro «gli operatori che comprano il carico
delle petroliere e le lasciano in balìa delle onde in
attesa di margini di guadagno più alti»,
sottolineando come su alcuni prodotti come il
West Texas Intermediate o il Brent del Mare del
Nord, i contratti futures, cioè di acquisto a
termine, sono di decine di volte. Secondo
Gros-Pietro, insomma, i "cattivi" non sono i
paesi produttori o le compagnie, come la stessa
Eni, che pure migliorano decisamente i loro conti
grazie al caro-greggio. No, secondo il capo di
uno dei più grandi gruppi petroliferi del mondo, i
cattivi sono loro: i traders, che in Italia vengono
chiamati "noleggiatori", e forse anche i brokers,
che dalle nostre parti si definiscono più
prosaicamente "mediatori marittimi". Secondo
altri osservatori, un ruolo decisivo lo sta
interpretando pure il Nymex, il New York
Mercantile Exchange, dove si scambiano
mediamente 220 milioni di barili di petrolio al
giorno, pari a tre volte l'intera produzione
mondiale e a nove volte quella dei paesi
dell'Opec. Una Borsa in cui, accanto agli
operatori delle grandi banche internazionali, come
Goldman Sachs e Merrill Lynch, sono attivi
anche piccoli traders chiamati "locals". Il loro
guadagno è piccolo, pochi cents al barile: però in
fasi di instabilità del mercato il ritmo degli scambi
si fa frenetico (si è arrivati a 160 mila contratti
quotidiani) e aumentano le possibilità di fare utili.

Delle "categorie" sopraelencate e capaci, in
misura diversa, di influenzare il prezzo del
greggio, quelle dei traders e dei brokers sono
sicuramente le meno conosciute fuori dalla stretta
cerchia degli addetti ai lavori. Società come la
svizzera Glencore, l'inglese Arcadia (che fa capo
ai giapponesi della Mitsui), l'anglo-olandese Vitol,
guidata dall'imperturbabile Ian Taylor, che ha
studiato a Eton, in effetti, dicono poco al grande
pubblico. Così come è relativamente poco noto
il nome di Marc Rich: 62 anni, americano, vive e
lavora a Zug, la località svizzera che è una delle
capitali del trading petrolifero. Rich, che ha avuto
anche un ufficio a Milano, in via Marina, è da
molto tempo in cima alla lista nera del fisco degli
Stati Uniti, che negli anni Ottanta mise una taglia
di 500 mila dollari sulla sua testa, accusandolo di
colossali evasioni di tasse. Due delle più
importanti trading companies di greggio,
Glencore e Trafigura, sono sorte sulle ceneri del
suo impero. Rich è tornato in campo da qualche
anno con la Mri, la Marc Rich Investments di
Zug, e la sua stella è tornata a brillare: anche se
non è più il leader indiscusso, continua a godere
della riconoscente ammirazione di tutti i suoi
concorrenti ed epigoni. «Perché è lui il migliore e
ha insegnato il mestiere a tutti», riconosce un
trader, in incognito, da Londra.

Il Maradona dei traders

La sua carriera sembra il copione di un film di
007, dove interpreta sempre la parte del cattivo.
Rich ha fatto grandi affari con l'ex dittatore
nigeriano Sani Abacha, il generale che aveva
accumulato una enorme fortuna personale in
Svizzera a colpi di tangenti e, praticamente da
latitante, ha finanziato la scalata alla Kaiser
Alluminium. Prima che il Sudafrica abbandonasse
l'apartheid, è stato tra i registi dell'aggiramento
dell'embargo petrolifero ai danni di Pretoria.
Stesso copione in Iran, dove ha comprato
petrolio a prezzo scontato durante la crisi degli
ostaggi americani. E non si è tirato indietro
neppure quando si è trattato di dare una mano
alla Russia post-comunista: l'ex ministro russo
del Commercio, Oleg Davydov, ha recentemente
dichiarato a "Forbes" che «truffatori come Marc
Rich ci hanno insegnato a esportare danaro nelle
società off-shore». Morale: il Maradona dei
traders, la cui ex moglie è generosa sponsor del
partito democratico, è considerato dalle autorità
del suo paese alla stregua di un pericolo
pubblico.

Traders e brokers, che spesso hanno la loro sede
legale in paesi fiscalmente molto
accondiscendenti, non amano affatto apparire.
Dice David Fransen, che è stato addetto stampa
di Crown Commodities a Ginevra: «Sfuggono la
pubblicità come la peste bubbonica». Un
gentilissimo trader genovese, ospitandoci nel suo
piccolo ufficio al centro di Genova, in un bel
palazzotto d'epoca, spiega: «Sappiamo da chi
comprare e a chi vendere, e chi è del campo ci
conosce. La pubblicità non serve». L'anonimo
interlocutore nega che il trading sia in grado di
influenzare effettivamente i prezzi della materia
prima. Anche se ogni tanto qualcuno tenta il
colpaccio e le quotazioni ne risentono, magari
soltanto per un breve periodo.

Il colpaccio in gergo si chiama "squeeze", cioè
"spremere il mercato". E, guarda caso, proprio in
questi giorni di fibrillazione planetaria intorno
all'oro nero c'è qualcuno che lo squeeze lo ha
messo a segno. Arcadia e Glencore, che
sapevano che a settembre dai giacimenti di Brent
(il tipo di greggio che viene utilizzato come indice
per il petrolio che finisce in Europa) del Mare del
Nord, soggetti a manutenzione, sarebbero usciti
22 carichi invece degli abituali 32 o 33, hanno
fatto incetta acquistando carichi fisici di Brent.
Così sono riu-sciti a venderlo con un premio di 3
dollari rispetto alla quotazione ufficiale. Tosco,
importante raffinatore americano, ha denunciato
l'operazione all'Antitrust, accusando i due traders
e altri operatori di aver barato. La replica: tutti
potevano sapere quel che sarebbe successo nel
Mare del Nord, tutti potevano immaginare che,
visto che la domanda cresceva, il prezzo del
Brent di settembre sarebbe cresciuto.

E la nave va

Chi si sta avvantaggiando apertamente del forte
incremento della domanda, senza bisogno di
particolari tecnicismi finanziari, sono però
brokers e armatori. C'è penuria di navi
cisterniere, in giro, anche perché dopo il
naufragio di Erika, la nave che ha inondato le
coste atlantiche francesi di olio combustibile nel
dicembre scorso, molte compagnie sono
diventate più attente nell'affidare i loro carichi.
Molte carrette del mare sono andate in pensione.
I noli, nel giro di un anno, sono raddoppiati e in
alcuni casi anche triplicati. I brokers lavorano a
percentuale sul valore del nolo. Se l'armatore
strappa un bel contratto al traders o alla
compagnia petrolifera, il tradizionale 1,25 per
cento s'ingrossa. Per i mediatori marittimi italiani
il momento è particolarmente buono perché
spendono in lire e incassano in dollari.

Se in Italia la figura del trader è marginale (uno
dei più noti è la Galaxy che opera da
Montecarlo), la pattuglia dei brokers attivi è
ancora consistente e si concentra soprattutto a
Genova, dove lavorano per esempio la Banchero
& Costa, la Burke & Novi, la Ferrotank, la Italia
Tankers e la Sernavimar. Nessuno di loro crede
alle navi che se ne stanno al largo in attesa che il
petrolio salga ancora: con quel che costano i noli
oggi, tener ferma una nave da 80 mila tonnellate
costa 23 mila dollari al giorno. Chi può
permetterselo? A livello internazionale i big del
settore noli sono invece gli inglesi Clarkson,
Gibson, Galbraith, Simpson e la norvegese
Fearnleys. In America, big come Mc Quilling e
Weber.

Una bella rivincita dopo anni di vacche
magrissime se la sono presa gli armatori. Il costo
dei noli per le tratte da cinque giorni nel
Mediterraneo è passato da 60 centesimi a un
dollaro a barile; il viaggio di una petroliera dal
Golfo Persico agli Usa, invece, è salito da 80
centesimi a ben 2 dollari a barile. Tra gli armatori,
un posto al sole se l'è conquistato negli ultimi
anni il norvegese John Frederiksten, che può
contare su una cinquantina di VLCC, Very Large
Crude Carriers, giganti tra le 220 e le 320 mila
mila tonnellate di portata lorda. Di petroliere di
queste dimensioni ce ne sono in giro circa 400.
Nella categoria con portata da circa 140 mila
tonnellate, il leader è la Alliance, joint-venture tra
lo stesso Frederiksten e la Omi, con una trentina
di navi costruite dopo il 1990. Tutti i grandi
trasportatori di petrolio quotati in Borsa hanno
visto schizzare in su le loro azioni negli ultimi
mesi. È successo anche alla Premuda e alla
Navigazione Montanari, le uniche società
armatoriali presenti in Piazza degli Affari. Le
azioni Navigazione Montanari sono salite del 56
per cento da aprile, e dall'inizio dell'anno i titoli
della Premuda di Alcide Rosina (che sta facendo
costruire altre due nuove petroliere in Corea)
sono più che raddoppiati. Un'accelerazione da
new economy per un business che più old non si
può.


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